In una piccola comunità come quella peretana si sapeva quasi tutto di tutti. Immancabilmente anche lo stato di salute di qualche compaesano, poco importante o grave che fosse, diventava per qualche giorno il tema di discussione che irrompeva nella monotonia quotidiana, scandita dalle solite attività tipiche di una popolazione prevalentemente contadina. Allora, non sempre le malattie avevano un decorso che portava alla guarigione e, purtroppo, anche a quel tempo si moriva. Un epilogo sempre doloroso.
L’ufficialità della morte veniva annunciata a tutta la comunità dai rintocchi delle campane della chiesa di San Giorgio. Le stesse, oltre a costituire generalmente un richiamo liturgico, svolgevano pure la funzione di comunicare al popolo situazioni di pericolo come nel caso di incendi.
Nel caso di un funerale una sola campana suonava “a morto” (sonea a mortu), ovvero con rintocchi lenti e gravi. Di ciò si occupava il Prete o il Sacrestano, oppure qualche volontario.
La facevano oscillare con la sola forza delle braccia tirando la corda che dalla stessa scendeva verticalmente fino al piano del campanile, attiguo alla sacrestia.
Udito il caratteristico suono, immediatamente in ogni vicinato, particolarmente le donne, lasciate le faccende casalinghe davano luogo ad un collegiale e temporaneo vociare per sapere l’identità del deceduto. Di regola la prima domanda che veniva rivolta ai vicini era questa: “chi s’è mortu?” (chi è morto?). Da notare che l’interrogativo era formulato sempre al maschile. Invece nel caso dei matrimoni era espresso al femminile: “iemo a vedé la sposa” (andiamo a vedere la sposa).
Non potevano mancare le solite considerazioni ed i commenti riguardo all’età del deceduto; si ragionava delle malattie che l’avevano indebolito e particolarmente dell’ultima che gli era stata fatale; si domandavano se tutti i figli e parenti erano stati avvertiti,… e via proseguendo. Insomma un po’ s’impicciavano e un po’ l’intromissione era considerata doverosa per partecipare il proprio “sentito” conforto alla famiglia colpita dall’evento luttuoso.
Solidarietà e sostegno che molti continuavano a manifestare con la partecipazione al rito cristiano del funerale in chiesa per l’ultimo saluto al deceduto. Anche ai bambini e ai ragazzi, dai loro genitori, veniva quasi imposta la presenza.
In quei tempi, c’era l’usanza di accendere le candele durante il rito funebre in chiesa e, dunque, a tutti i partecipanti ne veniva data una. La famiglia del defunto provvedeva all’acquisto e qualcuno s’incaricava della distribuzione. Tale consuetudine, per la religione cristiana, ha diversi significati e uno di questi indica che il defunto non può restare solo e allora l’accensione delle luci e delle candele servono a illuminargli la strada verso l’Aldilà.
Anche i vivi di allora, però, avevano bisogno della luce, ma di quella elettrica che non tutti possedevano e, quelli che potevano permettersela, la tenevano solo in casa e neanche in tutte le stanze. Anche le sorgenti luminose (lampadine) erano di bassa intensità, tant’è che si diceva: “ ‘on cesse vede mancu a ficcà ‘mmocca” (non ci si vede neanche a mettere il cibo in bocca).
Se le lampadine illuminavano appena, dati i pochi watt di potenza per risparmiare sul costo della corrente, immaginiamo quanta poca luce potevano emettere le candele o le lampade a petrolio!
Si dice che la necessità aguzza l’ingegno e a Pereto questo proverbio veniva messo in pratica. Sopra si è fatto cenno ai bambini e ragazzi che i genitori obbligavano quasi a prendere parte ai funerali. Lo scopo di tanta premura era motivato non tanto dalla preoccupazione di dare un’educazione religiosa ai propri figli – allora si facevano – ma quanto dal fatto che si portavano a casa più candele. Una prole numerosa in quei casi era una risorsa.
Durante lo svolgimento del funerale, come già detto, tutti mantenevano le candele accese e succedeva che qualche bambino, stanco di trovarsi in quell’ambiente saturo di profumo d’incenso che un po’ lo infastidiva pure, disturbato dai canti e preghiere che la liturgia prevedeva, per estraniarsi da tutto ciò iniziava a giocherellare con la “preziosa candela”. La spegneva premendo con le dita lo stoppino (lucignolo) (stuppinu); la riaccendeva e la faceva cadere a terra; qualche volta appiccava il fuoco al velo o ai capelli della persona seduta nel banco davanti.
I genitori, nonostante fossero in chiesa, andavano su tutte le furie, quando si accorgevano che la candela, già sottoposta a tortura, veniva ulteriormente seviziata riducendola a pezzettini. Questi, tenuti insieme dal filo di stoppa interno, simile ad una collana, veniva roteata dal piccolo monello con il proprio braccio al di sopra della sua testa. A nulla valevano gli strattoni e qualche scapaccione. Tornati a casa, probabilmente, avrebbe preso il resto poiché anche una candela in meno, nell’economia di molte famiglie di quel tempo, significava molto.
Le candele comunemente usate per i funerali avevano diversi spessori e, ovviamente, prezzi differenti. In caso di lutto, quasi tutti rispettavano la tradizione, spendendo quello che potevano. Tra un’esequie e l’altra anche le candele facevano la differenza, poiché le stesse determinavano il ceto sociale cui ciascuno apparteneva. Candela sottile: quasi povero; diametro medio: benestante; diametro massimo di quella tipologia di candele: ricco.
Ebbene, anche nell’amarezza di quelle circostanze alcuni potevano ostentare la floridezza della propria esistenza, distribuendo candele di un diametro più grande. Quelle erano le occasioni di una maggiore partecipazione ai funerali poiché le candele erano (paccute) cioè grosse.
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